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SID - SCIENZA IN DANZA

Danzare in catene: il gioco e la regola

La libertà è una di quelle dimensioni che ci sembra costituiscano l’agire proprio dell’essere umano, svincolato dalla rigida tirannia degli istinti animali e orientato nelle scelte dalla sua sola razionalità.

Questa visione antropologica è in realtà frutto di un’accurata selezione di contenuti, atta a istituire contrapposizioni nette tra aspetti diversi della realtà e a situare ogni ente in un dominio soltanto, per cui, nello specifico della libertà, o il comportamento umano è del tutto determinato oppure dipende solo dalla volontà del soggetto. La questione potrebbe essere più complessa di così e l’apprendimento della danza può mostrarci come.

Imparare a danzare, qualunque sia la tecnica che si voglia apprendere, implica infatti un percorso di integrazione tra la teoria delle regole e la pratica del corpo. In altre parole, esiste una codificazione teorica che permette di definire una certa tecnica e che deve essere gradualmente appresa e via via perfezionata affinché si possa dire di esserne danzatori. La danza si configura quindi, sin da subito, come una dimensione in cui prevalgono i vincoli, le norme, le indicazioni o, meglio, come uno spazio i cui confini sono individuati proprio da questi vincoli, queste norme, queste indicazioni. Non è possibile che il modo in cui i bambini si lasciano cullare dalla musica in una serie di gesti improvvisati faccia di loro dei comprovati ballerini classici, così come non si possono confondere tra loro una coreografia di Petipa e una di Graham. Sebbene si possa concedere che i piccoli entusiasti studino fino a diventare un giorno maestri della tecnica classica e sebbene si può immaginare che la creatività coreografica si spinga fino a ibridare in un unicum i due giganti di cui sopra, la stessa possibilità di porre dei confini, ancorché permeabili, suggerisce la predominanza della definizione tecnica sulla gestualità meno educata.

Perché nell’apprendimento accade qualcosa di simile all’educazione: l’acquisizione progressiva di una certa abitudine comportamentale non è poi così diversa dall’incorporazione delle regole nella danza. Il corpo è sempre al centro di questi processi, perché è il luogo in cui soltanto si può misurare la padronanza della teoria e in cui, soltanto, si realizzano le norme. Senza i corpi che danzano, della danza non sarebbe nulla, se non parole. Senza i corpi che danzano dunque non si potrebbe danzare, neanche per imparare a farlo. Questa considerazione, ovvia nei contenuti ma forse oscura nella formulazione, ha due importanti conseguenze, note a chiunque sia mai stato allievo di danza.

La prima è che si impara a danzare solo danzando. Il supporto teorico, inteso come approfondimento della disciplina da un punto di vista tecnico, storico, scientifico, culturale, è indispensabile per la formazione del danzatore, il quale tuttavia non può diventare tale solo per tramite dello studio disincarnato. Occorre entrare in sala, mettere in pratica la teoria mettendola in corpo, incorporandola fino a farla propria, fino a darle corpo, spessore, realtà.

La seconda implicazione, che questa prima rafforza, è che la danza trova la sua realtà non nell’astrazione uniforme delle regole, ma nella concretezza individuale del corpo. Danzare non è cioè l’inanellarsi di una serie di costrutti teorici, ma l’interpretazione che ogni corpo dà di questi ultimi concedendo loro così, soltanto, di esistere. Le regole che definiscono lo spazio della danza si trovano così ricondotte a obbedire alle leggi che sovraintendono il funzionamento di ogni specifico corpo. La soggettività torna in primo piano, e con essa qualcosa come la libertà.

Sarebbe tuttavia insensato, e controfattuale, dedurne che ogni corpo può fare della danza ciò che vuole, ignorarne le regole e dare sfogo al proprio arbitrio incondizionato: i vincoli che determinano l’ingresso o l’uscita dalla dimensione della danza continuano a sussistere, solo che si trovano a essere ricompresi nell’interpretazione corporea che se ne dà. Al pari della musica che non esiste se non suonata da qualcuno, la danza non esiste se non danzata da qualcuno e il suo accadimento per il corpo di quel qualcuno è una specie di gioco. Lo storico olandese Johan Huizinga nel suo trattato sull’argomento si spinge addirittura a definire la danza come una delle forme più pure e complete, speciali e perfette del giocare.

Non vi è nulla di più serio del gioco nella misura in cui consideriamo il livello di adesione che ogni giocare richiedere: occorre essere tutti presenti, tutti intenti, tutti coinvolti, altrimenti non si sta giocando affatto. Lo stesso accade nella danza, dove la presenza a sé secondo quell’alleanza di corpo e mente di cui si è già scritto implica un coinvolgimento senza resto nel danzare stesso, in cui nessun gesto corporeo e nessun atteggiamento mentale sfugge il momento presente, che su tutto si impone. La dimensione di evento e di urgenza configura allora lo spazio intimo della danza come un terreno di gioco, in cui il corpo si mette in gioco mettendo in corpo le regole della danza, dando loro corpo nel suo giocare danzando, rispetto a cui nulla, in quel momento, è più importante. Altrimenti non si sta danzando affatto.

La facilità che traspare da fuori è intimamente connessa a questa difficoltà, come scrive Friedrich Nietzsche a proposito dell’invenzione artistica, cui si riferisce con la fortunata espressione del “danzare in catene”. Non si ha libertà senza condizioni, non si hanno regole senza interpretazioni. Eppure, in seno a questo intreccio si trova anche l’innesco di un principio di rivoluzione. Lungi dall’accettazione passiva della norma, che anzi si vede costretta a vivificare, la danza è piuttosto divenire e trasformazione, evoluzione delle sue stesse regole, rinnovamento costante. Così, danzare è accettare di partecipare a un gioco, in cui la consapevolezza è un requisito essenziale: occorre essere consapevoli della teoria che sottende alla pratica del gesto danzato, ma anche dell’impossibilità delle regole di ergersi al di sopra dei corpi e quindi della necessità di vincolare le norme alla concretezza, irriducibilmente individuale, di ogni realtà corporea. Rispettandola, come faremmo e come facciamo con le regole di questo magnifico gioco, danzante e vitale.

 

Bibliografia:

  • Huizinga, Homo ludens, trad. di C. van Schendel, Einaudi, Torino, 2002
  • Nietzsche, Umano, troppo umano II, in F. Nietzsche, Opere, 8 voll., a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1964-2001, Vol. IV, Tomo III
  • Pastorino, Filosofia della danza, Il melangolo, Genova, 2020

 

a cura della dr.ssa Selena Pastorino

Redazione SID - Scienza In Danza

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